La novantasettesima parola buona è DISARMO.
Una piovosa serata di febbraio a Roma, ho assistito a un incontro pubblico tra Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, e Adriana Faranda, ex brigatista con un ruolo importante durante il sequestro del 16 marzo 1978. Da molto tempo, hanno intrapreso un percorso di ascolto e scambio reciproco all’insegna della giustizia riparativa.
Superato l’imbarazzo che coglie quelli della mia generazione o più anziani, che vedano scritti uno di fianco all’altro due cognomi così, Moro e Faranda, ho domandato alle due donne di indicarci i tratti fondamentali del dialogo tra loro.
Adriana Faranda ha ricordato che la visione manichea della storia, con i buoni rivoluzionari tutti da una parte e i cattivi responsabili delle istituzioni dall’altra, ha fatto usare persino la parola “amore” come strumento di violenza verbale, travisandone il senso, e da ciò è derivato il tragico epilogo dell’uccisione dell’uomo politico e della sua scorta.
Agnese Moro, di seguito, ha spiegato che tra le vittime e gli autori dei reati funzionano le parole e i silenzi di rimprovero e di riparazione, le parole e i silenzi che evitano di essere strumentali, le parole e i silenzi che si collocano tra gli uni e gli altri con lo spirito di recuperare la verità, senza annientarsi a vicenda. Le parole buone sono le parole disarmate.
La nuova parola buona è DISARMO
Le guerre si smontano iniziando a svuotare i serbatoi della violenza verbale.
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