L’ottantasettesima parola buona è COLORE.
Nel mio mestiere di psicoterapeuta, mi domando spesso di quale colore è tinta un’anima. Si parla di uomini e di donne di colore per una banale catalogazione delle persone in base alla sfumatura della pelle.
Ma dentro, che colori hanno le persone umane? Non in teoria, ma in pratica. Se pensiamo ad una persona cieca dalla nascita, tendiamo a credere che nella sua mente scorra un film in bianco e nero. Ma anche in questo caso stiamo banalizzando. Perché chi non vede con gli occhi, acuisce l’udito, l’olfatto, il tatto e il gusto allo stesso modo in cui noi vedenti possiamo costruirci rappresentazioni anche restando a occhi chiusi.
Una bimba sugli otto anni mi ha insegnato di che colore sia un’anima. Stava facendo un disegno insieme ai suoi genitori perché il Tribunale mi aveva incaricato di comprendere se sapessero ancora occuparsi dei loro figli. All’appuntamento mamma e papà erano giunti con più di un’ora e mezzo di ritardo. Lui era stanco, arrabbiato e deluso non spiegandosi come avesse dimenticato la strada per arrivare alla comunità dov’erano i suoi figli. La mamma era palesemente ubriaca, sbandava e manteneva un tono di voce alto.
Disegnando, la piccola domandava alla mamma di non riempire svogliatamente la chioma dell’albero che stavano colorando insieme. Cercava anche di tenere ferma la mano tremolante della donna. Voleva completare un arcobaleno senza che un colore sbavasse sull’altro.
Eccolo lì, mi sono detto, il colore di un’anima. È un colore pieno, che non si vede con gli occhi, ma con il cuore.
La nuova parola buona è COLORE.
Le cose giuste hanno la forza di farsi riconoscere, al di là delle circostanze e delle apparenze.
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